Israele-Palestina, donne senza più voce
27
Giugno
2024

Israele-Palestina, donne senza più voce

Abbiamo intervistato Alessandra Mecozzi, curatrice insieme a Gabriella Rossetti del volume Palestina Israele. Parole di donne, un libro che raccoglie voci femminili da entrambi le parti di una terra ancora una volta martoriata da una guerra crudele, che al momento non sembra avere alcuna soluzione.

Come siete riuscite a raccogliere le testimonianze che compongono questo libro?

Lo abbiamo fatto in diverse fasi. Con Gabriella avevamo già cominciato nel 2022 attraverso alcune interviste di donne palestinesi durante il Forum delle donne a Gaza palestinesi italiane, oltre 200 voci di donne molto giovani. Poi nel maggio del 2023 abbiamo aggiunto anche quelle delle donne israeliane, che si conoscevano tra loro, per dare un’idea delle diversità anche in Israele, anche se minoritarie. Poi c’è stato il 7 ottobre, e a quel punto abbiamo pensato fosse inevitabile aggiungere altro materiale.

Siete riuscite ad avere testimonianze?

Abbiamo cercato sia le donne palestinesi sia le donne israeliane che avevamo contattato, chiedendo loro dei commenti su questo disastro, e la maggior parte ce li ha inviati. Abbiamo poi proceduto anche con delle interviste post 7 ottobre. Insomma, è un libro costruito attraverso diverse fasi.

Quali sono le riflessioni che si possono trarre, a ormai quasi un anno dall’inizio del nuovo conflitto?

Purtroppo la situazione dopo il 7 di ottobre, e ancora recentemente, rimane catastrofica, quasi apocalittica a Gaza; e i sentimenti delle persone sono di dolore e di rabbia, ma anche di speranza. Sinceramente non vedo come ora le donne possano far qualcosa, nelle voci che abbiamo raccolto le parole sono in sintonia ma distanti, anche perché i contatti rispetto a tanti, ormai tanti anni prima, si sono molto affievoliti e deteriorati. La parola pace, che si usava sino a qualche tempo fa, ora si ritrova in seconda battuta dopo la parola giustizia. E da anni questi rapporti, ostruiti tra check-point e mancata libertà di movimento, non possono più indicare una strada perché una strada non c’è. Sinceramente credo potrà esserci una nuova comunicazione soltanto sulla base della fine dell’occupazione.

Quali sono le parole e i pensieri delle donne israeliane?

Tra loro c’è chi pensa che lo Sato d’Israele non sia più un Paese dove si possa vivere, c’è chi se ne vuole andare trascinando le loro famiglie, mariti compresi, rifiutando il servizio militare. Ma sono voci che in Israele, nella società, restano limitate e minoritarie, condizionate in un modo o nell’altro dall’attuale politica israeliana. Il popolo israeliano vorrebbe la liberazione degli ostaggi, come è giusto che sia, ma non sembra essere la priorità del governo. In questo senso cominciano a esserci manifestazioni contro l’aumento dell’autoritarismo, ma non contro la fine dell’occupazione.

Si può coltivare ancora una seppur minima speranza?
Negli anni della prima intifada c’è stato un orizzonte di speranza. Ora la speranza resta ma l’orizzonte manca, anche per lo scenario rappresentato dalla comunità internazionale. Inutile ribadirlo, al momento la situazione è pessima, atti concreti verso un miglioramento non ne fa nessuno; e anche laddove arrivano delle indicazioni, come quelle della Corte internazionale di Giustizia, la cultura dell’impunità non solo del governo ma dei gruppi dirigenti israeliani, prevale sulla giustizia e sulle critiche.
Quanto pesa la presenza esclusivamente maschile in queste scelte, in questo orizzonte senza pace?
Il patriarcato esiste qui come altrove, ma in Israele credo entri in gioco la questione riguardante una società militarizzata, non solo per il servizio obbligatorio, ma anche nelle teste delle persone. Per questo non vedo una strada verso la pace condotta dalle donne, perché oggi non c’è una strada. Ci sono donne che si muovono in questa direzione, ci sono delle manifestazioni, ma è l’intero contesto geopolitico che deve orientarsi in questo senso.